I Castelli di Napoli
Castel dell’Ovo
L’isolotto del Castel dell’Ovo rappresenta l’estrema propaggine del promontorio roccioso denominato Collina di Pizzofalcone la quale costituisce una netta soluzione di continuità del lungomare di Napoli, separando la Conca di Chiaia ad occidente, da quella del porto ad oriente. La struttura collinare, conosciuta anche con l’appellativo di Monte Echia o di Monte di Dio, si presenta come un blocco quadrangolare che culmina all’estremità meridionale ad una quota di 54 m s.l.m. dove
strapiomba da un lato su via Santa Lucia e dall’altro su via Chiatamone, un tempo larghe spiagge, che si estendevano sino a Mergellina. Furono, verosimilmente, i mercanti e viaggiatori provenienti da Rodi che, nel IX secolo a.C., diedero origine al piccolo insediamento di Partenope, localizzato ai piedi della collina di Pizzofalcone e sull’isolotto di Megaris. Il nome di Partenope, assegnato a questo primo insediamento, viene attribuito al culto della Sirena e contribuisce a rafforzare la tradizione che vuole che siano stati i Rodii i primi fondatori della città, in quanto dediti al culto di essa. Il castrum fu realizzato dal patrizio Lucio Licinio Lucullo, uomo politico e generale romano (c. 120- c. 57 a.C.), lungo il litorale partenopeo. Il Castrum Lucullanum, così come descritto nella tradizione, doveva possedere ragguardevoli dimensioni ed essere circondato da mura e porte atte a preservare la bellezza e la magnificenza di ville, terme, portici, sterminati orti, immense piscine, ma soprattutto una ricca biblioteca di papiri che Cicerone definì come una delle più importanti allora esistenti.

Nel periodo delle incursioni barbariche, la villa di Lucullo fu fortificata ad opera dell’imperatore Valentiniano e successivamente divenne il luogo di prigionia che accolse, fra gli altri, l’ultimo imperatore romano Romolo Augustolo.
Sul finire del V secolo si insediarono sull’isolotto alcuni monaci Basiliani, provenienti dalla Pannonia, che realizzarono alcune celle ricavate nel tufo. Nei secoli successivi, subentrato l’ordine benedettino, furono realizzati alcuni cenobi ed il Castrum, comprendente sia l’isola che il retrostante promontorio, conobbe una nuova ed intensa frequentazione essendovi state costruite strade e realizzati appezzamenti di terreno coltivati. Notizie certe circa la fortificazione di almeno una parte dell’isola risalgono comunque agli ultimi anni del Ducato bizantino, quando nel trattato di pace sottoscritto nel 1128 tra il duca Sergio VII e la repubblica di Gaeta il sito viene indicato come “arx sancti Salvatoris”. La trasformazione dell’isola in struttura a carattere esclusivamente militare avviene durante la dominazione normanna. E’ infatti con Guglielmo il Malo, nel 1154, che si procede ad una sistematica opera di rafforzamento difensivo con la costruzione delle prime torri. L’incarico di realizzare le nuove fortificazioni venne affidato all’architetto Buono. Egli, oltre a rafforzare l’arco naturale di collegamento tra le due parti dell’isolotto tufaceo provvide, presumibilmente, all’erezione della prima torre, a pianta quadrata, denominata “Normandia”. Al periodo svevo sembrerebbe risalire la realizzazione di altre tre torri: la “Coleville” a nord, a difesa del castello verso la terraferma, la “Maestra” e la
torre “di Mezzo”. Nonostante siano oggi tutte scomparse, della torre situata all’estremo nord è possibile individuare la parte basamentale, trasformata in passaggio coperto con funzione di collegamento verso la parte estrema del castello mutata nei secoli XVI – XVII in forma bastionata, come conseguenza dell’adattamento alle nuove tecniche difensive post – medievali.
Con l’arrivo di Carlo I d’Angiò si avvia un periodo di trasformazioni piuttosto intenso per il nostro castello; vengono eseguiti lavori sin dal 1270 e a più riprese, nel 1275, nel 1278 e nel 1280. E’ in questo periodo che il nome del castello, gradualmente, muta da Castrum Salvatoris ad mare in Castel dell’Ovo, denominazione che coincide con la credenza (molto diffusa all’epoca) relativa all’uovo magico di Virgilio.
Di fondamentale importanza, per la comprensione dell’assetto di Castel dell’Ovo nella prima metà del XIV secolo sono due documenti provenienti dai registri della Cancelleria angioina, rispettivamente del 1324 e del 1338. Nel primo documento, relativo a lavori da eseguirsi, sono menzionate numerose e significative parti del castello: cinque torri, ovvero le due estreme, rispettivamente Normandia a sud e Colleville a nord, e tre torri intermedie, quella di Mezzo e due altre, entrambe definite “Maestre”; una prigione (domus captivorum) ubicata presso una delle due torri Maestre; una Gran Sala ed un Palacium Magnum con giardino; stanze per la regina; le due chiese, del Salvatore e di S. Pietro. Nel corso della
tremenda tempesta verificatasi nel novembre 1343, gravi danni subì soprattutto il grande arco naturale di sostegno. Ma ancora maggiori furono i danni subiti dal castello a seguito di un’altra tempesta verificatasi nel 1370 che interessò il grande arco, che probabilmente crollò totalmente insieme a buona parte del castello. In quell’occasione si diffuse tra la popolazione la credenza che l’uovo magico custodito nel castello si fosse rotto. A seguito di quanto accaduto, il castello fu oggetto di ulteriori importanti interventi di restauro, ad opera dell’architetto Giovanni di Gilio, commissionati dalla regina Giovanna I. Con gli aragonesi il Castel dell’Ovo subì notevoli trasformazioni, ad opera di Alfonso V il Magnanimo che spesso vi dimorò. L’apporto aragonese al castello, oltre al l’abbassamento delle torri, si concentrò soprattutto nella parte settentrionale, dove Alfonso trasformò le superate strutture medievali, inadatte a fronteggiare la nuova minaccia delle artiglierie a polvere, oltre che con la cimatura della torre di Colleville, con la realizzazione di due torri di forma ottagonale munite di bombarde per fronteggiare le offese provenienti dalla terraferma. I resti della reggia aragonese sono oggi individuabili, a livello di spiccato, nella parte centrale del castello, verso occidente. A poca distanza sorge il loggiato a doppia altezza, In origine composto da quattro archi a tutto sesto per ciascun livello; parte integrante della residenza reale quattrocentesca.

La conquista del Regno di Napoli da parte delle truppe spagnole nel 1503 - che segnò il passaggio dalla dinastia aragonese agli Asburgo- passò anche per Castel dell’Ovo nel quale si era asserragliata una parte delle truppe francesi lasciate da Luigi XII a guardia della capitale.
Tra gli anni ’30 e ’40 del XVI secolo il sistema difensivo della capitale fu profondamente modificato con la costruzione di nuove mura ad occidente di quelle quattrocentesche. Il nuovo recinto ampliò la città che fu così delimitata ad occidente da Castel dell’Ovo, dalla collina di Pizzofalcone e da Castel Sant’Elmo; quest’ultimo rinnovato profondamente a seguito del progetto di Pedro Luis Escrivà. A seguito della riorganizzazione difensiva toledana al Castel dell’Ovo non fu
attribuito un ruolo primario dal punto di vista difensivo in quanto il nuovo Castel Sant’Elmo, collocato su una posizione strategicamente superiore agli altri castelli e dotato di artiglierie moderne, poteva bombardare la città ed era il principale presidio sul fronte settentrionale cittadino. Castel dell’Ovo conservò la funzione di batteria costiera, in relazione allo sviluppo del borgo di Chiaia e della zona di Santa Lucia, acquistò anche il ruolo di presidio di una seppur limitata zona della città. Per quanto marginale per l’assetto difensivo, il presidio fu conservato perché offriva un buon numero di abitazioni che potevano servire sia per alloggiare la corte e le truppe, sia per uso detentivo.
L’uso del castello per quest’ultima funzione era anche favorito anche dalla particolare relazione che il complesso fortificato instaurava con la città poiché questo era collegato con un lungo ponte con la terraferma e dal particolare impianto distributivo ossia la presenza di un unico percorso controllato da tre posti di guardia. Negli anni ’90 del ‘600 fu realizzata all’estremità del castello la potente batteria costiera del Ramaglietto, su progetto dell’ingegnere fiammingo Ferdinando Grunemberg.
L’opera occupò in parte il sito che aveva ospitato i mulini per fronteggiare le nuove unità navali dalle quali era possibile bombardare la costa. Anche nel secolo XVIII, ritenuto troppo esposto agli assedi, Castel dell’Ovo resta poco presidiato e destinato in parte a usi detentivi, e ad alloggio di uomini al seguito della corte e di ufficiali dell’esercito mantenendo sostanzialmente queste funzioni sebbene più volte fosse stata ipotizzata persino la sua demolizione per far posto ad un forte progettato secondo nuovi criteri strategici. Il decennio francese (1806-15) costituisce un momento di ripresa della struttura in termini decisamente militari mentre il ritorno della dinastia borbonica pone di nuovo il castello in una condizione di estraneità dal contesto urbano con l’introduzione di impianti tecnici non difensivi: tra questi, nel 1824 – nell’ambito del programma di sviluppo della flotta mercantile inaugurato per incrementare gli scambi commerciali – è realizzata una stazione telegrafica a scopi commerciali di riflesso alle attività del porto di Napoli. Si ignora, invece, quali modifiche il castello abbia subito al suo interno nella prima metà del secolo XX in quanto proprietà dell’amministrazione militare. Solo tra gli anni 1962-63 esso fu trasferito all’amministrazione civile. Nel decennio successivo si studiarono i lavori di restauro – sotto la direzione del Provveditorato opere pubbliche della Campania – rivolti al consolidamento della roccia tufacea che costituisce l’appoggio delle fondamenta del castello e delle cortine esterne erose dagli agenti atmosferici mentre, per le cortine occidentali, fu realizzata una barriera frangiflutti a pelo d’acqua anche a protezione della batteria spagnola. Il 14 dicembre 1999, finalmente, Castel dell’Ovo è in parte concesso dallo Stato al Comune di Napoli con il fine di promuovere e sostenere iniziative culturali e turistiche mirate a valorizzare il monumento nel contesto di sviluppo della Città.
Testi a cura di Luigi Maglio, Domenico Tirendi, Maurizio Montone, Gennaro Maria Monti e Lanfranco Longobardi.